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La Tempesta Incombente - Capitolo 16


Ral e Tomik camminavano fianco a fianco, senza nessuna meta in particolare. La pioggia scendeva a fiumi, battendo sui tendoni dei negozi lungo la via, formando linee in movimento che si dirigevano verso le pozze che si creavano tra i ciottoli. Le gocce deviavano prima di toccare la coppia, lasciando attorno ad essi uno spazio asciutto ed una cortina incredibilmente spessa d’acqua oltre di esso. Quando pioveva così forte, quell’incantesimo li lasciava nel loro piccolo mondo, isolati da tutto quello che si trovava dietro la cortina d’acqua impetuosa e schiumosa. A causa dell’impatto delle gocce sul terreno, una flebile nebbia si avvolgeva ai loro piedi.

 

“Non ero sicuro che saresti arrivato” disse Tomik a un certo punto.

 

Quando la sua euforia era scemata, si era allontanato da Ral, rannicchiato su sé stesso in un modo che la gola di Ral non riusciva a sopportare. Ral voleva prendergli la mano, ma non lo fece. Non ancora. Gli occhiali di Tomik erano ricoperti di gocce d’acqua.

 

“E non l’avrei fatto” disse Ral. “Non era la mia intenzione all’inizio.”

 

“Cosa ti ha fatto cambiare idea?”

 

“Io…” Ral lanciò un’occhiata a Tomik. “Vuoi che ti dica la verità?”

 

Tomik, con le braccia incrociate, annuì con insicurezza.

 

“Vorrei dire che ero preoccupato per te” disse Ral. “Ma so che sai badare a te stesso. La maggior parte delle volte, almeno.”

 

Tomik sorrise, molto leggermente, e Ral si rilassò un po’.

 

“Ti conosco” disse Ral. “So quanto tieni al tuo lavoro con Teysa, so ciò che significa per te. Stavo pensando che se eri disposto a metterti contro di lei su questa faccenda, se eri disposto a rischiare ogni cosa… probabilmente era una cosa incredibilmente importante.”

 

“Più importante del lavoro sul tuo macchinario?” disse Tomik.

 

“Abbiamo quasi finito” disse Ral. “Manca solo la costruzione vera e propria dell’aggeggio, e io non posso fare tutto. È solo che… mi faccio trasportare.”

 

“Anch’io ti conosco” disse Tomik.

 

“No” disse Ral. “Non veramente. Ci sono parti della mia vita di cui io… non parlo.”

 

“Perché non sono avvenute a Ravnica?” disse Tomik.

 

“Ti ha già detto qualcuno che sei troppo intelligente per il tuo stesso bene?”

 

Tomik sorrise. “Tu. Più volte.”

 

“Sì” disse Ral. “Perché io non vivevo a Ravnica. E…” Prese un profondo respiro. “Alcune delle cose che mi sono capitate mi hanno reso difficile fidarmi delle persone. Mi hanno reso difficile vederle diversamente da degli strumenti.”

 

“Anche Teysa è così” disse Tomik, con tranquillità. “Non è una persona cattiva, Ral. Ma è stata cresciuta in questo incubo, e non può fuggire.”

 

“Io e te…” Ral scosse la testa. “Non dobbiamo essere per forza così. Non l’uno con l’altro. Io…” Si grattò la barba, irritato. “Voglio qualcosa di diverso.”

 

“Come tenere veramente a qualcuno?” disse Tomik.

 

“Esatto” ammise Ral.

 

“Bè.” Tomik fece scivolare la propria mano in quella di Ral e si appoggiò alla sua spalla. “Non so se ancora ci sei arrivato, ma stai imparando.”



Nel sogno di Ral, lui era curvo sulla scrivania, e stava aggiungendo i tocchi finali.

 

Costruire la cosa che voleva non sarebbe stato facile, e gli erano già venute in mente delle idee per migliorarla. Le celle di accumulo dell’energia erano pesanti e irregolari, e non ne contenevano quanto avrebbe voluto a causa della loro complicata rete di metallo e ceramica. Perlomeno era riuscito ad evitare l’immagazzinamento di liquido. Trasportare una decina di litri di acido sulla schiena sarebbe stato sicuramente l’inizio di un bel disastro…

 

Da qualche altra parte, su qualche altro Piano, avrebbero potuto esserci materiali migliori. Aveva avuto una visione di un traliccio di cristallo, e di bobine rotanti, ma trovare qualcosa con le giuste proprietà fino a quel momento si era dimostrato impossibile.

 

Nonostante ciò, abbassò lo sguardo verso la propria creazione e sorrise, chiudendo l’ultimo compartimento sul lato. Gioioso, lo raccolse e fece scivolare le braccia attraverso le cinghie, facendo abituare la sua schiena al peso del marchingegno. Un paio di guanti penzolavano da dei lunghi cavi isolati e lui se li infilò, muovendo le dita e percependo un debole crepitio di potere.

 

Ovviamente doveva essere ricaricato. Ma anche vuoto, l’accumulatore gli diede una sensazione di potere. L’energia della magia di Ral proveniva dalle tempeste che infuriavano sopra la sua testa, quindi la sua forza era sempre stata imprevedibile come il tempo atmosferico. Non più. Ora poteva portarsi la propria tempesta, fatta di cuoio, ceramica e acciaio.

 

“Ingegnoso” disse una voce dalla soglia. “Hai imparato molto dall’ultima volta che abbiamo parlato, amico mio.”

 

Ral alzò lo sguardo, allarmato. La porta principale era chiusa a chiave, e ne era sicuro, così come la porta del suo ufficio. Ciononostante, ora era aperta, ed un uomo più anziano di lui lo guardava da quell’apertura. Era alto, con i capelli grigi e vestito in modo impeccabile con dei vestiti che in qualche modo suggerivano che lui provenisse da… qualche altra parte. Anche se era passato ormai un decennio dall’ultima volta che si erano incontrati, Ral non poteva dimenticarlo.

 

“Salve, Bolas” disse lui, sforzandosi di mantenere la calma nella voce.

 

“Zarek” disse Nicol Bolas, gentilmente. “Posso entrare?”

 

Ral annuì. “Porte e serrature non sembrano significare molto per te.”

 

“Ah, ma la gentilezza ha più potere di qualsiasi lucchetto” disse Bolas, entrando nell’ufficio. Si guardò intorno con approvazione, osservando i progetti appesi alle pareti e la scrivania invasa da attrezzi e parti di ricambio. “Sei stato impegnato.”

 

Ral fece spallucce. “Faccio del mio meglio.”

 

“E il tuo meglio è piuttosto straordinario” disse Bolas. “Arenato qui, senza nemmeno uno spicciolo, a sanguinare in un vicolo. E nel giro di dieci anni, eccoti. Padrone di un piccolo impero, con una dozzina di inventori che si ritengono privilegiati a farti da assistenti. E non hai nemmeno dovuto uccidere così tante persone per farlo.” Bolas ghignò, con i suoi denti bianchi e molto appuntiti. “Non che sia necessariamente un demerito, ovviamente.”

 

“Lo sapevi?” disse Ral. “A Tovrna. Sapevi ciò che ero?”

 

“Se sapevo che fossi un Planeswalker?” disse Bolas. Fece spallucce. “Diciamo che… lo sospettavo. I Planeswalker sono incredibilmente rari, e non gli si può insegnare ad utilizzare la propria Scintilla. Devono accenderla da soli, altrimenti rimane spenta, e per accenderla c’è bisogno di un qualche tipo di trauma.”

 

“Quindi mi hai incastrato” disse Ral.

 

“Non ho fatto nulla del genere. Ti ho dato ciò che volevi, non è così?” Il ghigno di Bolas si allargò. “Il fatto che sia andata a finire male non è di certo colpa mia. Passioni giovani, sai com’è.”

 

“Perché?” disse Ral. “Anche tu sei un Planeswalker, altrimenti non saresti qui. Quindi perché ti sei dato tanto da fare per farmi riscuotere qualche pezzo di rame da quei poveri bastardi?”

 

“Il punto centrale non sono mai stati loro” disse Bolas. “Ma sei sempre stato tu. Come ho detto, i Planeswalker sono rari. Quando penso che qualcuno abbia del potenziale, io faccio del mio meglio per… incoraggiarlo. E renderlo in debito con me, così da facilitare una possibile futura collaborazione.”

 

“Penso che io abbia già pagato i miei debiti verso di te” disse Ral, camminando attorno alla scrivania.

 

“Al contrario” disse Bolas. “Pensi che avresti potuto compiere questo, qualsiasi cosa, senza il mio aiuto?”

 

“Il tuo aiuto mi ha quasi fatto ammazzare.”

 

“Ti ho spinto al limite per vedere ciò di cui eri veramente capace” disse Bolas. “E lo hai scoperto. Questo non vale qualcosa? Non ti ho forse fatto un favore?”

 

Ral fissò l’uomo e il suo sorriso dai denti appuntiti. Molto lentamente, lui annuì.

 

“Potremmo metterla in questo modo” disse lui.

 

“Allora siamo d’accordo sul fatto che tu sei in debito con me” disse Bolas. “E io sono venuto a riscuotere, Ral Zarek. Unisciti a me, e potremo compiere dei portenti.”

 

“Lascia che ti dica ciò che mi hai insegnato” disse Ral. “La lealtà è per gli stolti. La fiducia è per i perdenti. E gli alleati esistono per essere usati, fintanto che risultano utili.” Lui si mosse leggermente, adattandosi al peso della macchina sulla sua schiena. “Quindi, grazie mille per la lezione. Ma io non ripagherò alcun debito che tu pensi che io ti debba.”

 

“Spiacevole” disse Bolas. Il suo sorriso era scomparso. “La tua posizione qui-”

 

“Stai per minacciarmi di prenderti tutto ciò che ho costruito” disse Ral. “Fai pure. Non ne voglio più sapere. Ora ho questo” -si toccò lo zaino, poi la tempia- “e ciò che c’è qui dentro. Alla fine, è tutto ciò che mi serve.”

 

“Non pensare di potermi sfuggire, Zarek” disse Bolas. “Ovunque tu vada, io potrò seguirti.”

 

“Non ho bisogno di fuggire” disse Ral. “Ma stare sempre un passo avanti a te.”

 

Lui concentrò la propria mente. Fare un viaggio planare era quasi come cadere, una volta imparato il trucco. Tra le miriadi di mondi, diresse l’occhio della sua mente verso uno familiare.

 

È ora di tornare a casa. A Ravnica. Ma non a Tovrna. Basta sprecare il mio tempo in quella parte isolata. Il Decimo Distretto era il cuore del Piano-città, ed era lì che sarebbe dovuto essere. Come si sarebbe adattato, esattamente, ancora non lo sapeva, ma non era più preoccupato. Con i suoi talenti ed il suo potere ci sarebbe sempre stato un posto per lui.

 

E se qualcuno si trova già in quel posto, bè, peggio per lui…



Vraska fissava il suo trono.

 

Si era sentita bene, nell’euforia del momento. Addirittura nel giusto. I contorti corpi pietrificati degli elfi che componevano il suo raccapricciante seggio erano stati suoi nemici, e avevano passato decadi a denigrare tutti i Golgari che non erano come loro. Sia le gorgoni che i kraul avevano sofferto sotto le vessazioni dei devkarin, e ciascun prigioniero trascinato fino al trono e congelato sul posto con un’ondata del potere di Vraska era una piccolissima frazione di vendetta. Quando l’opera fu completata, si era ripromessa, avrebbe fatto di meglio.

 

E che cosa ho ottenuto? Una città kraul antica e bellissima ridotta in macerie. Migliaia di Golgari morti. Tutto per niente. Tutto per Bolas.

 

Xeddick. Il kraul albino non sarebbe mai dovuto essere sul campo di battaglia, ma aveva insistito, e lei era stata troppo indulgente per rifiutare. E a causa di questo aveva dovuto osservare, inerme, mentre Aurelia lo tagliava in due, e fuggire per evitare di essere la prossima ad essere colpita dalla spada dell’angelo. Prima o poi la metterò nel mio giardino. Lo giuro. Strinse i pugni, comprendendo quanto patetica fosse stata con quel pensiero.

 

Xeddick aveva ragione fin dall’inizio. Non avrei mai dovuto fargli sbloccare i miei ricordi. Il suo periodo a Ixalan aveva indebolito il suo scopo. L’aveva resa debole. Sarei stata molto meglio se non mi fossi mai più ricordata di Jace, o… di qualsiasi cosa. Bolas aveva ancora le grinfie strette attorno alla sua gola, quindi cosa importava? Almeno, se avessi dimenticato tutto, avrei potuto avere una possibilità di accontentarmi felicemente e servire sotto di lui.

 

Era in piedi, da sola, con il respiro pesante ed i tentacoli mossi dall’agitazione. Voleva colpire qualcosa, far del male a qualcuno. Sentire il calore dietro i propri occhi e la morbidezza della carne indurita in pietra. Voleva…

 

Xeddick. Jace. Vraska si appoggiò ad uno dei pilastri, dando le spalle all’odioso trono. Qualcuno che mi capisca.

 

Ma non era rimasto nessuno.

 

Una raschiata di artigli sulla pietra annunciò l’arrivo di un visitatore. Vraska alzò lo sguardo, aprendo le labbra per mostrare i suoi denti taglienti. Mazirek entrò, ondeggiando le zampe anteriori in una breve riverenza.


Mazirek, Necrosciamano Kraul | Mathias Kollros
Mazirek, Necrosciamano Kraul | Mathias Kollros

 

“Volevate vedermi, mia regina” disse il kraul, con il suo tono ticchettante e ronzante.

 

“Avrei voluto vederti al mio fianco, in battaglia” disse Vraska, spingendosi via dal pilastro. “Stranamente, è stato proprio allora che ti ho trovato assente.”

 

“Mi pento di essere stato costretto a lasciarvi sola” disse il necrosciamano. “Fui assalito da un branco di thrull Orzhov, e mi ci sono voluti alcuni minuti per distruggerli. Le correnti della battaglia sono difficilmente navigabili, persino per me.”

 

“Infatti.” Vraska percepì il potere crescere dietro i propri occhi, in modo spontaneo. Sarebbe molto più facile accontentarmi di lui da mettere nel mio giardino. Chiuse gli occhi per dissipare il potere, scuotendo la testa. Ma è ancora troppo utile.

 

Mazirek, apparentemente ignaro di quanto fosse stato ad un passo dalla distruzione, fece ancora il suo leggero mezzo inchino. “Desideravate qualcos’altro da me, mia regina?”

 

“No” disse Vraska. “Sparisci.”

 

Il kraul verde scuro si ritirò. Vraska camminava lungo la sala del trono vuota con una mano sulla sua sciabola, e si accasciava senza sosta sul suo trono contorto. Quando qualcuno bussò ad una delle porte, rischiò di gridare dalla frustrazione.

 

“Che c’è?”

 

“Un ospite.” La voce era di un uomo, ma nessuno che conoscesse. “Che spera in un attimo del vostro tempo.”

 

Solo una manciata di persone avrebbe osato disturbarla nel suo rifugio. Mazirek, Xeddick, Storrev. E-

 

“Entra, allora” disse Vraska. “Non posso fermarti.”

 

Il burattino che aveva mandato Bolas questa volta era una giovane donna con i rimasugli a brandelli di un’uniforme della Legione Boros. Era ricoperta di fango e melma, ed un lungo taglio lungo la guancia aveva già fatto infezione grazie al perenne caldo umido della Città Sepolta; era gonfio, rosso e pieno di pus. Due Antecessori la scortarono, muovendosi con la loro rigida andatura formale, vestiti di antichi paramenti. Spaccone. Gli Antecessori erano il coltello che Bolas teneva puntato alla gola di lei, un coltello che lei aveva piazzato lì con le proprie mani.

 

“Sei qui per darmi una strigliata?” disse Vraska, dirigendosi verso il trono con finta nonchalance. “Mi farai la predica come un maestro di scuola deluso?”

 

“E a cosa servirebbe?” disse il burattino di Bolas, avanzando. Ad un ordine invisibile, la scorta di zombie si voltò e camminò fuori. “Mi pare ovvio che tu abbia fatto del tuo meglio. Ma il tuo meglio, a quanto pare, non è stato abbastanza.”

 

Per qualche ragione, quella frecciata la colpì più di quanto si aspettasse. “I Golgari non possono nulla da soli contro un’alleanza di metà delle altre gilde. Avrei pensato che qualcuno dotato della tua intelligenza avrebbe potuto capirlo.”

 

“Io sono solamente un’ombra del mio padrone” disse il burattino. “Mi limito ad eseguire le sue istruzioni.”

 

“Se vuoi che attacchi quel macchinario che stanno costruendo, puoi dire al tuo padrone che non si può fare.” Le sue spie stavano osservando l’opera e le difese che avevano eretto. “Gli uomini di Ral stanno piazzando campi minati, torrette lanciafiamme e chissà cos’altro, e i maghi della legge Azorius hanno circondato la zona con talmente tante difese che un’orda di troll non potrebbe nemmeno scalfirle. Qualsiasi cosa stiano costruendo, rimarrà qui a lungo. Non manderò altra gente del mio popolo a morire.”

 

“Non è richiesto un attacco sul risonatore” disse il burattino di Bolas, sorridendo leggermente. “Ho assegnato quel compito ad un agente più… competente. Per te, il mio padrone ha riservato l’incarico di minare il piano di riserva di Zarek.”

 

“Quale piano di riserva?” disse Vraska.

 

“C’è una torre, sulla superficie, che contiene una macchina molto intrigante. Quando il piano di Zarek fallirà (e fallirà), comprenderà di aver perso, e proverà a compiere il suo ultimo tiro di dadi. Tu sarai là per fermarlo. Il mio padrone richiede che tu tenga conto di tutte le possibilità, anche le più remote. Manderai le tue forze per bloccarlo.”

 

“No.” Vraska si alzò, di scatto, e camminò per la sala del trono.

 

“No?” Il burattino fece tremare un sopracciglio, causando un’espressione estremamente fuori luogo sul suo volto sporco e insanguinato. “Ho bisogno di ricordarti ancora una volta le conseguenze del tradimento, Vraska?”

 

“Non invierò le mie forze. Ho smesso di sprecare vite Golgari per te.” Vraska era in piedi di fronte al burattino e mostrò di denti. “Andrò di persona, ed ucciderò Zarek. Spero che questo sia sufficiente.”

 

“Lo sarà.” Il burattino si avvicinò di più. Puzzava di putrefazione. “Ma il fallimento non è un’opzione. Non per te. Ral Zarek potrebbe avere pietà di te, ma Bolas non ne avrà alcuna. Quando vincerà (e vincerà) ti tratterà in modo consono al tuo servizio verso di lui.”

 

“Capisco” disse Vraska. “Hai finito di minacciarmi?”

 

“Per ora.” Il burattino sorrise. “Ed io ho finito con questo guscio. Potresti libertatene per conto mio?”

 

La donna Boros sbatté le palpebre, i suoi occhi si concentrarono su Vraska ed iniziarono a spalancarsi. Iniziò a gridare finché Vraska non la prese per la gola, concentrando il proprio potere e lasciandolo scorrere attraverso i suoi occhi. Quando, a un tratto, lasciò che la statua di pietra della soldatessa terrorizzata le sfuggisse dalle dita, frantumandola in mille pezzi sul pavimento.



Vraska teneva la sua armeria in una piccola stanza adiacente alle proprie camere personali. Negli anni aveva accumulato un bel po’ di armi e armature, e dopo aver preso il controllo dei Golgari aveva spostato le proprie scorte dai suoi nascondigli al palazzo.

 

Era quasi un archivio dei ricordi, più che altro. C’erano diverse tipologie di armatura, ciascuna utilizzata in un momento diverso della sua vita: le strette vesti nere di un’assassina dei tetti, delle più elaborate parti di piastre che aveva indossato per impressionare un po’, il costume con il quale era tornata a Ravnica dopo la sua vita a Ixalan. Su una lunga rastrelliera erano allineate varie sciabole, dalla semplice arma che brandiva nei suoi primi giorni, fino ad arrivare a pezzi da esposizione impreziositi ricevuti come dono dopo la sua ascesa a regina.

 

Passò le dita sulle lame d’acciaio, persa nei suoi pensieri. Alla fine si fermò davanti ad una spada, la cui lama era seghettata come un dente di squalo, con un brutale spuntone tirapugni assemblato nell’elsa. Era un’arma orribile, spietatamente funzionale, progettata per infliggere all’avversario il massimo dolore possibile. Perfetta.

 

“Regina.” Storrev fluttuò nella stanza, con la sua voce leggera come un sussurro. “Mi avete convocata.”

 

“Stavo pensando” disse Vraska. “A te e agli altri Antecessori. Siete obbligati ad obbedire a Mazirek, dico bene?”

 

Storrev inclinò la testa. “Lui ci richiamò dalle nostre tombe, mia regina. Ma ci diede istruzione di obbedire anche a voi.”

 

Mazirek, che era sparito nel momento più critico. Che le parlava con una tale sfrontata arroganza. Vraska sentì i propri sospetti solidificarsi in certezze.

 

“Siete obbligati a riferirgli ogni cosa che faccio?” disse Vraska.

 

“Solamente se lo chiede esplicitamente, mia regina” disse Storrev. “Avete un incarico per me?”

 

“Sì.” Vraska fece scivolare la spada a dente di squalo nel suo fodero. “Io potrei essere… assente per un po’ di tempo. Nel frattempo, mi piacerebbe che consegnassi questo biglietto.” Passò un foglio di fungo spugnoso alla lich, che lo lesse attentamente. “Confido che tu possa gestire il resto.”

 

Storrev non mostrava mai alcuna espressione, ma Vraska poteva giurare di aver visto il fantasma di un sorriso attraversarle il viso. La lich si inchinò correttamente, in modo formale.

 

“Certamente, mia regina. Il vostro volere sarà compiuto.”

 

La lich fluttuò via. Vraska osservò le diverse armature, si svestì della sua tunica ufficiale ed iniziò ad indossare la più semplice tra tutte: cuoio e piastre dai suoi primi giorni come assassina.

 

Sono stufa di farmi ricattare, in un modo o nell’altro. Mentre stringeva le cinghie, sembrò ritrovare una certa pace in lei. Uccidere Zarek, e lasciare che il resto si sistemi da solo. È l’unica cosa che mi è rimasta.

 

Mi dispiace, Jace.


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