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Indomita, Parte 2

Vivien si svegliò con un sapore di latta in bocca. Simile a colla, ricopriva la parte interna delle guance e la parte inferiore della lingua. Si passò quest’ultima sui denti, trovando un buco dove ce ne sarebbero dovuti essere due ed il moncone rovinato di un terzo. Vivien strabuzzò gli occhi. C’era troppa luce, e l’aria non era calda, ma tiepida, come l’esofago di una mucca appena macellata, oleosa, umida e nettamente animale.

 

Delle dita attorcigliate nei suoi capelli le tirarono la testa indietro.

 

“Pensavo fosse morta nel sonno.” La voce del barone, stucchevole, e la sua silhouette che iniziava a definirsi alla vista, vellutata e con la pelle bianca quanto una candela. “Sarebbe stato un terribile inconveniente.”

 

“Che cosa-” Vivien sputò del sangue. Le parole uscirono con fatica, con le sillabe coagulate come fossero composte di grasso, pesanti e dure più di quanto si ricordasse. Un sapore ramato permeava la sua gola. “Che cosa hai fatto?”

 

“L’ho catturata, a quanto pare.” Lentamente, gli occhi ripresero definizione. La sua vista iniziò a notare alcuni dettagli: i profondi buchi delle orbite del barone, il movimento del suo naso, molto tozzo in un volto che avrebbe altrimenti avuto le fattezze di un lupo. “Abbiamo preso il suo arco.”

 

Lei fece uno scatto prima ancora di riuscire a mettere in fila due pensieri, prima ancora di prendere il tempo di considerare le sue condizioni, i polsi ammanettati, il modo in cui il suo corpo era indolenzito a causa della sua sospensione, il formicolio ai suoi piedi ed il modo in cui le corde le fendevano i fianchi. La mano immersa nei suoi capelli diede un altro strattone, veloce, più aggressivo dell’ultimo, e Vivien ululò una lamentela.

 

“È un dispositivo piuttosto interessante.” Il barone fece scivolare le proprie mani all’interno delle sue maniche esageratamente larghe. Perfino i suoi più piccoli vezzi erano ostentazioni, non più autentici del suo sorriso o della sua pelle simile a paraffina. Vivien si dimenò, nonostante i movimenti limitati, sibilando. “Come ha fatto a non farsi uccidere? Abbiamo provato tantissime cose. Una volta siamo riusciti ad evocare un orso. Ma è sopravvissuto solo per qualche secondo. Il tempo necessario per uccidere altri miei uomini.”

 

Camminava in cerchio attorno a lei, con la testa ad un angolo perfetto, e si fermò al terzo giro per afferrare la mandibola di lei, con le dita che giravano come chiavi nel punto in cui si innestava la mascella, forzando la bocca ad aprirsi. Il barone fissò l’interno della sua gola, come se fosse un cavallo di razza.

 

Cosa è lei?”

 

Vivien strabuzzò gli occhi.

 

“Sicuramente non uno spirito della natura. Non una dea. Sembrerebbe umana.” La sua voce si abbassò. “Mi chiedo se lei non sia una Planeswalker. Ne abbiamo qualcuno qui. Ma se è davvero quello che penso, mademoiselle, è stranamente maldestra. Nessun incantesimo protettivo, non vede altre direzioni se non di fronte a sé. Un martello da guerra senza padrone.”

 

Lui mollò la presa.

 

“Se ha intenzione di minacciarmi, credo che abbiamo raggiunto una pausa naturale. Questo è il luogo nel quale avvengono quasi tutti questi scambi di informazioni. Al costo di suonare presuntuoso, spero che non aspetti troppo tempo. Ho così tante domande.”

 

La stanza-la cella, si corresse Vivien, notando l’assenza di finestre e la mancanza di rumori ambientali, era bianca, dal soffitto basso e senza interruzioni. Una sola entrata e null’altro. Buona parte delle sue facoltà erano ritornate, abbastanza da permetterle di osservare attentamente, di compiere qualche analisi, e la conclusione tratta da entrambe queste azioni fu sconcertante. Avevano prestato attenzione. “Ridammelo.”

 

“Cosa?”

 

Vivien si leccò la bocca, secca. Un gesto che non migliorò la situazione. “Ridammi il Bestiarco.”

 

“No.” Il suo respiro sbuffò contro la guancia di lei. L’altro uomo entrò nel suo campo visivo. Indossava dei guanti da fabbro e gli attrezzi di un boia, aveva il petto gonfio ma le gambe sottili, ed era incurvato quanto un albero morente: una caricatura, comicamente proporzionata, ma non per questo meno pericolosa. “No, non lo farò. Ma ora, mi dica: che cosa è lei?”

 

Vivien strabuzzò gli occhi.

 

“È questo il gioco a cui vuole giocare? Bene. Non mi dica cosa è. Mi dica del Bestiarco. Come funziona? Siamo già riusciti a richiamare l’orso. Ma la serpe? Abbiamo parlato della serpe? Morì. Sparì dopo pochi secondi in seguito alla sua evocazione, nata morta e deforme.” Dietro di lui, l’altro uomo stava sistemando un grandissimo numero di attrezzi, con il loro argento posato sul velluto bordeaux. La meticolosità di lui era una velata minaccia.

 

Vivien tremò. Il wurm divorante era stato un altro dei suoi primi ricordi, un trionfo giovanile, e anche se la Planeswalker non provava un particolare attaccamento per quell’esemplare specifico che aveva cacciato, le ricordò i suoi giorni migliori. “Skalla.”

 

“Ha già detto quella parola. Ora ricordo. ‘I morti di Skalla’.” Il viso del barone si ravvivò con un meticoloso senso di meraviglia accademico. “È questo ciò che è lei? Un fantasma che schiavizza fantasmi? Addirittura la loro intera storia?”

 

“Ridammi il Bestiarco.”

 

Lui abbaiò una risata spiacevole. “No. Mai.”


Il Barone di Vernot tornò due volte, poi altre due volte successivamente, e ogni volta con delle domande riguardo le razze degli abitanti del Bestiarco e la leggendaria storia di Skalla, ogni volta più furente dell’ultima. L’artefatto si stava dimostrando molto poco disponibile verso i suoi trafugatori: il Bestiarco aveva scomposto molti degli assistenti del barone, riducendoli alle molecole di cui erano composti, un liquido strato nero che bagnava le piastrelle del pavimento.

 

“Come funziona?”

 

Vivien mantenne il proprio silenzio. Il barone era straordinariamente intelligente. Vivien capì che la sua tortura era una sorta di matematica tra coltelli ed incisioni precise, ma questo comportamento primitivo era solamente l’inizio per il barone. Disponeva di altri mezzi più sofisticati per tormentarla, dei modi per ferirla che non infliggevano cicatrici fisiche.


Vescovo dei Vincoli | Bastien L. Deharme
Vescovo dei Vincoli | Bastien L. Deharme

Come funziona?

 

Ogni volta che faceva le sue domande, la magia del barone cercava un contatto, che trovava nel sangue che scorreva nel corpo di Vivien, portandolo ad ebollizione. Lentamente. Ma la Planeswalker non faceva altro che ridere alla sensazione di bruciore che proveniva dall’interno delle sue vene. Nicol Bolas le aveva già inflitto qualcosa di peggiore. Indipendentemente da come il barone cercasse di piegarla utilizzando la magia, il forcipe o lo scalpello, indipendentemente da ciò che faceva, non riusciva ad attechire, non riusciva a trovare un posto che Nicol Bolas non avesse già sfregiato con la morte di Skalla.

 

Vivien inveiva animatamente contro il barone e rideva fragorosamente dinnanzi alla sua ira.

 

Lui teneva sempre delle guaritrici a sua disposizione durante le sedute con Vivien: delle suore vestite di madreperla, con le bocche cucite da fili dorati, che insieme mantenevano la sanità mentale di Vivien grazie a dei sutra stregati ogni volta che il barone terminava, mugugnando incantesimi simili ai canti di un grillo. Ogni volta che il barone si stancava, ogni volta che si annoiava, si riunivano per lavarla e nutrirla con delle rondelle di pane raffermo, del brodo vegetale e dell’acqua piovana talmente fredda e pura che bruciava la lingua.

 

Iniziò a misurare il tempo grazie a questi eventi, le ore e i minuti venivano sostituiti dai cigolii della porta, dal sibilo del tessuto che veniva trascinato sul pavimento, dalla strisciata del coltello nel velluto.

 

“Come funziona?”

 

Vivien osservava il barone da un occhio, in quanto l’altro era chiuso in seguito ad un pestaggio. “Ridammi il Bestiarco, o ti vedrò morire. Urlando.”

 

Non ci furono altre visite dopo quella. Le suore, tuttavia, vennero un’ultima volta. In quell’occasione, però, arrivarono con una sottoveste, un sottogonna, un collare di tessuto ed una tunica, tutto infilato in lunghe e lucenti scatole di noce ricolme di essenze. Mentre la lavavano, nei capelli di Vivien vennero intrecciati dei giacinti secchi. La spogliarono dei vestiti che si erano incrostati sulla sua pelle, in alcuni punti talmente rigidi che dovettero tagliarli via con degli attrezzi.

 

Le suore eseguirono l’abluzione senza commenti né censure, con le loro fredde dita che scorrevano sulle sue cosce muscolose e i tendini del collo, troppo rigidi e delicati, anche in seguito a diverse applicazioni di acqua bollente profumata di lillà. Vivien si agitava durante le cure delle suore. Quando finalmente terminarono, vestirono Vivien con un modesto completo del colore di un’ala di colomba in lutto. La Planeswalker riuscì a vedere uno scorcio di sé stessa e fece una smorfia. Il suo nuovo vestiario la faceva apparire più minuta e debole, poiché la sua figura era semi-nascosta dal tessuto morbido e informe. Sembrava una penitente venuta a chiedere aiuto in una chiesa.

 

Vivien lo detestava.

 

Ma non disse nulla, muta mentre le suore avvolgevano i suoi polsi con delle catene di filigrana. La loro espressione era fiacca e serena. Drogate, pensò inizialmente Vivien. Tuttavia, gli sguardi delle suore, per quanto fossero assenti di personalità, erano acuti. Automi, decise Vivien, mentre la conducevano lungo corridoi che si snodavano come cunicoli sotto un firmamento di terra, senza alcuna traccia dell’opulenza di Luneau a cui aveva assistito. La puzza di acqua marina permeava quel luogo.

 

Vivien diede un’occhiata ai dintorni. C’erano ratti ovunque, e grumi di vermi grassi, talpe e lombrichi, ma nulla che avrebbe potuto utilizzare: i ratti l’avrebbero divorata in poco tempo, come avrebbero fatto con Luneau, se ne avessero avuto la possibilità. I vermi non avrebbero avuto interesse, così come i lombrichi, e le talpe avrebbero potuto far crollare inavvertitamente il soffitto. Scoraggiata, Vivien non fece nulla, consentendo alle suore di condurla per la loro strada.


Processione Profana | Bastien L. Deharme
Processione Profana | Bastien L. Deharme

Un altro angolo, un’altra svolta. La terra divenne marmo di palazzo, ricoperto di oro rosa e seta rossa. Il passaggio procedeva verso l’alto, avvolto dalla luce delle candele. Vivien deglutì non appena odorò il fetore del miscuglio di profumi: essenze di rosa, gelsomino, primula e ilang-ilang. La processione si fermò davanti a delle porte di palissandro, difese da due bruti dalle spalle larghe, uno per lato. Ad entrambi gli uomini erano stati infilati un panciotto e una camicia stropicciata con gli orli troppo lunghi e le maniche troppo strette, oltre che delle cravatte maldestramente annodate sotto il pomo d’Adamo. Luneau poteva anche abbondare con il suo smalto, ma questi uomini rimanevano comunque indubbiamente dei criminali, delinquenti di periferia fino al midollo. All’unisono, chinarono la testa verso le suore; un movimento gentile eseguito malamente dai loro corpi abituati alla violenza.

 

Né le suore né Vivien proferirono parola. Gli uomini aprirono le porte e la Planeswalker venne accompagnata all’interno. Con sua sorpresa, non era un’altra cella o, perlomeno, non una che presentasse la classica estetica di una prigione. Vivien aveva visitato cappelle con decorazioni meno sfarzose, e municipi con progetti più decorosi. La stanza era sontuosa, al punto da risultare vergognosa. Il corredo di una regina, con superfici a specchio, legni pregiati, pavimento in onice e ghirigori d’oro.

 

Dentro, c’era una singola tavola rotonda, un vaso da notte, una piccola branda e una sedia intagliata per assomigliare ad un grifone. Sul tavolo si trovavano una ciotola di frutta così intensamente colorata da sembrare finta ed una brocca di vino speziato.

 

La porta si chiuse alle spalle di Vivien.

 

Era in trappola, di nuovo.


Come in precedenza, Vivien presto si ritrovò incapace di misurare il passare del tempo. La sua tortura e la sua correzione almeno le fornivano una struttura da poter applicare alla giornata. Ora non c’era nulla, nemmeno i suoni del mondo esterno, nulla che non fossero i suoi costanti passi e lo sgranocchiare dei suoi denti durante i pasti di frutta, le cui gocce di succo schizzavano sul pavimento. Vivien riusciva quasi ad udire il suo battito cardiaco in quel silenzio vuoto e interminabile.

 

Misurò la lunghezza e la larghezza della stanza per due volte, e poi due volte ancora, prima misurandolo in falcate e poi utilizzando la precisa lunghezza del proprio piede. Un incantesimo manteneva la stanza immacolata e la ciotola di frutta piena. Vivien fece degli esperimenti. Buttò i torsoli di mela e i noccioli di pesca nel vaso da notte. L’incantesimo fece sparire quelli, ma non la scarpa che ci aveva incastrato dentro, o le morbide ciocche dei capelli di Vivien.

 

La Planeswalker continuava a camminare.

 

Quella era una tortura molto peggiore, peggiore persino dello spettacolo nel colosseo, peggiore di ogni cosa eccetto la vista di Nicol Bolas che si innalza nel cielo in fiamme, ridendo alla scomparsa di Skalla in una luce bianca. In quel luogo, Vivien non poteva fare altro se non rivisitare quel momento in continuazione. Nemmeno il sonno riusciva a distrarla da quelle elucubrazioni. Quando Vivien si lasciava andare al sonno, sognava comunque Skalla.

 

Ad un certo punto, la porta si aprì nuovamente. In un punto del tempo impreciso dopo la sua prima esperienza di prigionia, la Planeswalker quasi non si resse in piedi per la gratitudine, euforica per quella distrazione. Un uomo era in piedi all’uscita: era una delle sue guardie, con il volto paonazzo e umido di sudore, che si sistemava nervosamente il colletto.

 

“Il barone c’ha voglia di vederti.” A differenza di tutti coloro che aveva incontrato, il suo accento era provinciale, approssimativo e grezzo. L’uomo deglutì. “Dice che ha una roba importante da dirti.”

 

“Digli che mi restituisca il Bestiarco.”

 

L’uomo scrollò le spalle. “Posso anche farlo, ma io sono uno che non vale niente. Il barone dice che o vieni, o puoi stare qui.”

 

La morte, in quel momento, la allettava più di quella noia continua. Vivien digrignò i denti a constatare quella verità. Il Barone di Vernot doveva sapere, doveva aver previsto la sua avversione per l’immobilità. La resa poteva anche essere una sua sconfitta personale, ma Vivien non ne poteva più di quel luogo. Avrebbe corso il rischio, ed il barone avrebbe avuto l’orgoglio di lei come ricompensa.

 

“Va bene.”


“Mademoiselle Reid, benvenuta.”

 

Lei strabuzzò gli occhi contro il bagliore. Erano entrati in una sala da ballo: il soffitto a volte e gli affreschi intagliati nelle pareti, le pareti erano in oro, perla e sfumature di un ricco color prugna dove non presentavano finestre che si estendevano dal soffitto fino al lucido pavimento. Fuori, Vivien riusciva a vedere l’oceano, le cui acque erano crestate d’argento.

 

Il Barone di Vernot vestiva la sua tenuta chirurgica di fronte al mostrosauro dello spettacolo di qualche tempo prima, con una maschera che copriva il suo viso ristretto. Re Lucard era seduto e stava assistendo svogliatamente, accerchiato da cortigiani e ministri che dividevano il proprio tempo tra affari di stato e la curiosa osservazione delle attività del barone, le quali venivano seguite attraverso degli occhiali scuri. Vivien realizzò, con una reazione sconcertata, che non stava eseguendo un’autopsia, ma una vivisezione. Il mostrosauro era vivo.

 

Ma a malapena. Gli specchi della stanza, accuratamente predisposti così che il pubblico del barone potesse vedere tutto da ogni angolazione, offrivano la visuale della procedura. Soffietti e pulegge, uniti in un complesso macchinario di dimensioni imprecisate, fremevano e palpitavano. Ogni volta che si muovevano, il mostrosauro muggiva dal dolore. Le suore che avevano assistito Vivien, con le tuniche ora sudicie di liquidi scuri, ronzavano attorno alla cavia del barone. Ogni volta che si rompeva qualcosa, si affrettavano a riparare il danno, sfruttando la loro magia come una lamina dorata. Il pubblico del barone osservava la procedura spassionatamente, facendo partire ogni tanto un educato applauso. La vivisezione era assolutamente marginale nella loro serata, come fosse parte di una conversazione, una distrazione, ancora meno importante rispetto alla donna che stava camminando tra di loro.


Fulcro della Caducità | Bastien L. Deharme
Fulcro della Caducità | Bastien L. Deharme

Il barone si pulì le mani su un panno offerto da una ragazzina e abbassò la maschera, ridendo come se la vista di Vivien fosse piacevole quanto una borsa piena d’oro inaspettata. Come se fossero stati vecchi amici, cresciuti nella stessa corte, accomunati dalle stesse ambizioni. Alleati, invece che torturatore e vittima. Calò il silenzio nella sala da ballo, in modo assoluto. Non avevano bisogno di respirare, pensò Vivien distrattamente, mentre il suo antagonista si avvicinava, seguito da una donna con un carrello d’argento.

 

“La Regina dei Fantasmi. Devo essere onesto. Mi è mancata la sua compagnia, ma la ricerca ha sempre la priorità per noi scienziati. Come sta? Ha passato delle buone giornate?” Il barone si guardò alle spalle e fece un cenno con la testa alla sua compagna, che rispose allo stesso modo. Il sorriso di lui rimase splendente. “Di certo sta meglio di prima. Le è piaciuta la frutta?”

 

“Il Bestiarco.” Ce n’erano troppi di loro perché Vivien potesse agire. Troppi archi, troppe spade, troppe opportunità per le quali tutto sarebbe potuto andare male. Ma non era solo quello il problema. Il problema era ciò che giaceva in mezzo alla sala da ballo, che stava morendo pian piano, esalando pesanti respiri tra i suoi denti. Nonostante fossero stati presi molti provvedimenti per mantenere la creatura in vita, nessuno si era preso la briga di curare la sua gamba. E perché avrebbero dovuto farlo? Pensò Vivien, amareggiata. Meglio tenerlo in quel modo, zoppicante, inerme, incapace di fare qualsiasi cosa se non fremere ai tormenti che gli venivano inflitti.

 

“Quella parola che continua a pronunciare. Skalla. È il suo piano natale, vero?” Il barone continuò il discorso con disinvoltura, soddisfatto.

 

Un colpo.

 

“Era”, si corresse, velenoso nella pronuncia. “Era il suo piano natale. Mi scuso. A volte sono proprio sconsiderato. Non bisognerebbe confondere i verbi, soprattutto quando c’entrano i morti. Skalla era il suo piano natale, vero? Prima che venisse raso al suolo, perlomeno.”

 

Vivien non disse nulla.

 

“E lei è l’ultima reliquia vivente del piano. Un fantasma.” Il barone fece di nuovo quel cenno verso la sua compagna, ma con un movimento più conciso. Era, come si rivelò successivamente, un segnale. La donna spinse in avanti il suo carrello e tolse il drappo di tessuto avorio con un gesto plateale. E lì si trovava il Bestiarco, il cui corpo principale appariva così innocuo di fianco alla faretra svuotata di Vivien, se non per il fatto che fosse ricoperto di sangue rappreso. “Ho sempre avuto il dono di comprendere le cose che non cedono i loro segreti tanto facilmente. Ma perfino io sono rimasto sorpreso da quanto fossi stato preciso. Lei è un fantasma, Mademoiselle Reid. Un fantasma che trasporta i suoi morti sulle spalle.”

 

Vivien continuò a non dire nulla. Il sangue iniziava a filtrare nell’occhio del dinosauro, già mezzo ribaltato all’indietro, mostrando il bianco e la densità maggiore del fluido attorno all’iride. Ansimava con dei brevi sospiri. Da dove si trovava lei, Vivien riusciva a vedere gli ematomi nei suoi polmoni, una sfumatura di nero tra gli organi pallidi e rosei.

 

“Ma il tempo della discrezione è terminato. Skalla non è altro che cenere e cadaveri. Tuttavia, ha un’opzione. Mi insegni ad utilizzare l’arma e la ricopriremo di glorie, ci assicureremo che non si ritrovi mai con un desiderio insoddisfatto. La renderemo una vera regina, e Skalla potrà tornare a vivere all’interno di queste mura.”

 

Vivien espirò.

 

“Va bene. Ma ho bisogno del Bestiarco.”

 

Il barone inarcò le sopracciglia. “E cosa mi assicura che non lo utilizzerà per fuggire?”

 

“Nulla.” Vivien scrollò le spalle, cercando invano di distogliere lo sguardo dal rettile morente alle spalle del barone, e contorse il volto in una smorfia. “Ma, ovviamente, sei comunque tu ad essere in vantaggio. Sono comunque qui, giusto?”

 

Il silenzio ricompensò la sua risposta.

 

“Il Bestiarco ha… un meccanismo unico.” Vivien era stata cresciuta per cacciare, e sapeva di aver ottenuto l’attenzione della propria preda, proprio come conosceva le migrazioni degli uccelli e le abitudini della volpe artica. Il barone, in tutta la sua compostezza, nelle sue espressioni soppesate, nelle sue aperture verso l’indifferenza, era rimasto stizzito dalla dichiarazione di Vivien. “Nel momento della morte di una creatura, esso assimila un’immagine del morente dentro di sé, preservando per sempre lo spirito nelle sue fibre.”


Lupo di Skalla | Lius Lasahido
Lupo di Skalla | Lius Lasahido

Il barone si voltò a metà dell’esposizione di Vivien verso i suoi assistenti, gesticolando. “Sembrerebbe abbastanza facile da fare.”

 

“Solamente se siete me.”

 

Il barone si fermò.

 

“Pardon?”

 

“Potete provare quanto volete, ma non funziona a meno che non sia io a compiere il rituale.”

 

“Oh?” Il barone inclinò uno sguardo impaziente in sua direzione, riunendo le mani dietro la schiena. Roteò su un tacco, con un movimento lento, ponderato nella sua grazia, ed iniziò a camminare verso Vivien. “Dunque è così? È un vanto interessante da esternare.”

 

Vivien scrollò le spalle, facendole scrocchiare. “Il Bestiarco è mio. Fu creato dagli sciamani di Skalla. Nello specifico, fu creato per me, ed è inteso per essere usato dalle mie mani. Potete provare quanto volete, ma l’unica cosa che riuscirete ad ottenere sarà sofferenza per la vostra impudenza.”


Illustrazione di Ken Lashley
Illustrazione di Ken Lashley

Non era una menzogna. Non proprio. Una verità, forse, avvolta attorno alle ossa carbonizzate di tutto ciò che Vivien aveva sempre amato, e quindi perché avrebbe dovuto rivelare tutte le sue sfumature al barone, perché avrebbe dovuto ritagliare la verità e mostrarla sul suo tavolo? In questo punto della storia, la sua costruzione sarebbe potuta benissimo essere esclusivamente per Vivien. Di tutte le persone che avrebbero potuto rivendicare la proprietà dell’artefatto, lei era l’unica rimasta in vita.

 

“E se io non le credessi? Se decidessi di compiere io stesso un tentativo?”

 

“Allora i tuoi continueranno a morire.” Vivien si leccò le labbra screpolate, facendo passare la lingua sui denti. “Sai che ho ragione, Barone. Hai già visto come ti ha ripagato la tua ostinazione. Vuoi rischiare ancora, Barone? Quante altre settimane dovranno passare prima che ti portino un nuovo esemplare? Quante opportunità per fuggire mi fornirai?”

 

Il silenzio fece largo alle risate. Vivien alzò velocemente gli occhi ed osservò la trasformazione dell’espressione del barone, la sua imperturbabile facciata stava lasciando spazio a qualcosa di simile alla rabbia, anche se soltanto per una frazione di secondo, un lasso di tempo così infinitamente piccolo che non l’avrebbe notato se non l’avesse osservato. Lui ricoprì quella crepa nelle sue difese con un sorriso quasi immediato, ma per Vivien fu sufficiente sapere che era riuscita a fargli ribollire il sangue.

 

Il sorriso di lei si allargò. “Siamo entrambi prigionieri di questa situazione, Barone. Io ho pochissime scelte, e così anche tu.”

 

Il barone produsse un suono disgustato con la gola. Esaminò Vivien con un freddo sguardo, dalla cima della sua testa ai suoi piedi in ciabatte. Lo sguardo della Planeswalker, dal canto suo, era carico di una sfida silenziosa e in attesa. Lei lo aveva sott’occhio. Il barone lo sapeva, e così Vivien. Lei abbassò la sua testa verso l’orecchio di lui. Vivien aveva una decina di centimetri di vantaggio sull’altezza del nobile, e quasi altrettanti sulla larghezza di spalle. Dietro di loro, il mostrosauro gemette nuovamente, con la morte che passava le sue rassicuranti mani su un corpo che sarebbe dovuto giacere in una tomba moltissimo tempo prima.

 

“Sai che cosa impari dall’osservare la morte del tuo piano, Barone?” Vivien abbassò la voce. “Dal vedere tutto ciò che conosci e che ami bruciare nelle fiamme? Dalla permanenza di una tale conoscenza? Sei conscio di ciò che fa ad una persona?”

 

Questa volta, fu il barone a non dire nulla, con le guance infossate mentre se le mordeva all’interno della bocca. Vivien si chiedeva se il pubblico li stesse ascoltando. Conosceva le dicerie, le varie voci che raccontavano dei diversi talenti che poteva fornire il vampirismo, e “percezione aumentata” erano due parole che si ripetevano in ogni storia. Il silenzio nella sala da ballo contribuiva sicuramente alla veridicità di quei racconti popolari. Era un silenzio consapevole, compiaciuto, indulgente, ricavato dallo stesso materiale simile a diamante dei gioielli che circondavano la gola di Re Lucard, quasi felino nella dimostrazione di quelle qualità.

 

Vivien sperava di avere ragione. Luneau sembrava deliziarsi nella sua drammaturgia, e non le importava chi sarebbe finito infilzato alla fine: tutto andava avanti fintanto che lo spettacolo catturava l’interesse. E Vivien aveva pianificato di utilizzare quella cupidigia. Il suo sorriso si allargò ancora di più.

 

“Ti fa capire che esistono cose peggiori della morte, peggiori della tortura, peggiori di qualsiasi orrore che un uomo possa infliggere ad un altro. Non mi fai paura.” La Planeswalker batté le sue dita contro lo sterno del barone, toccò perfino il suo naso per essere più teatrale: il silenzio si dilatò per lasciare andare una fragorosa risata. “Ma penso che io faccia paura a te.”

 

“Io invece penso che potreste risultare un po’ troppo presuntuosa rispetto alle sue condizioni di salute, mademoiselle.” Grugnì il barone, attraverso il suoi denti serrati.

 

“No.” Vivien lanciò lo sguardo verso Re Lucard, che aveva da tempo abbandonato le sue conversazioni ed ora si trovava seduto, con uno sguardo di avaro interesse. Quando i loro occhi si incrociarono, lui fece un segno piegando due dita verso una delle sue dame di compagnia. Lei annuì ed aggirò la folla dei cortigiani, spostandosi verso un carrello ricolmo di bottiglie di cristallo ed eleganti bicchieri di vino. La donna versò una dose generosa di una sostanza densa e quasi totalmente nera, con la luce quasi iridescente attraverso il prisma dell’alcool, ed iniziò a spostarsi verso la posizione di Vivien, che in quel momento si permise una bassa e sincera risata.

 

“Non penso proprio.”


Calice del Gerofante | John Stanko
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